Al di là della retorica, i contatti tra modelli filosofici e di pensiero occidentali e modelli orientali sono sempre più rari e sporadici. È forse questa rarità che rende così interessante la vista improvvisa di architetture o dialoghi, per così dire, “sincretici”. Al centro di Milano c’è un monastero zen, Il Cerchio, il cui abate è anche un noto divulgatore ed esperto di filosofia orientale alla ricerca continua di dialogo con filosofi, curatori, pensatori occidentali. Si chiama Tetsugen Serra, e da quando ho iniziato a meditare in zazen, la tipica posizione meditativa zen, è diventato anche il mio maestro. Abbiamo più volte dialogato, in privato e in pubblico, della necessità dell’incontro tra due presunti modelli di pensiero alternativi: la mente razionale della filosofia occidentale, quella silenziosa della filosofia zen.
Riprendiamo il filo di quel dialogo ora, in occasione dell’uscita dell’ultimo libro di Tetsugen, L’incertezza (Damiani 2021). Si dice ingiustamente che la filosofia occidentale abbia causato una frattura inedita con tutto ciò che c’era prima, che attraverso il pensiero razionale abbia creato una novità inedita nella storia del pensiero. Ma questo è vero solo in parte: di fatto la prima filosofia dei presocratici era un pullula re di modelli di pensiero sciamanici basati su un contatto con la natura diretto e non mediato. Ma la vera non-frattura sta nei modelli logici: basterebbe osservare in modo disincantato lo stoicismo per vedere un uso della logica paradossale non così diverso dal sistema logico basilare alla filosofia zen cioè il koan, dalla storia di Achille e la tartaruga (il più celebre paradosso di Zenone: se anche Achille venisse sfidato da una tartaruga nella corsa e concedesse alla tartaruga un piede di vantaggio, egli non riuscirebbe mai a raggiungerla) all’argomento del mucchio di sabbia (il paradosso di Eubulide: un granello di sabbia non è un mucchio, due granelli non sono un mucchio, tre granelli non sono un mucchio... insomma aggiungendo solo un granello a qualcosa che non è un mucchio, non si ottiene un mucchio).
Soli davanti alle nostre incertezze
«Dici bene, ma dobbiamo prima di tutto capire cosa sia un koan», risponde Tetsugen Serra. «Sono storie zen usate dai maestri durante le sessioni di lavoro con gli allievi volte a fratturare un presunto uso della logica come risolutiva o argomentativa. Di fatto, direi, una specie di anti-sillogismo dove da premesse più o meno funzionanti arriviamo a conclusioni paradossali o non risolutive. Ne esistono centinaia, forse migliaia, hanno la funzione di farci trovare da soli davanti alle nostre incertezze e rendere la risoluzione linguistica non sufficiente. Nello zen diciamo che diventa necessario “praticare” la verità e non solo trovarla o cercarla. Come nella storia in cui un allievo chiede al maestro di dirgli cosa sia la verità senza l’uso della parola o della predicazione e gli viene dato un ceffone, come se si facesse per esagerazione un uso massivo dell’idea che il reale è sempre e comunque un processo di resistenza alla nostra volontà di piegarlo a uso e consumo. Per questo più che lo studio, nella tradizione zen, è importante la condivisione del sapere in comunità».
« ANCHE PER PLATONE, IL PIÙ GRANDE DI TUTTI I TEMPI, LA FILOSOFIA “IMPORTANTE” ERA TALE SOLO NELLA PRATICA QUOTIDIANA DELL’ACCADEMIA»
In fondo anche nella filosofia classica ciò che importava davvero era l’ammissione in una scuola, che poi altro non era che una molto lieve laicizzazione dei templi monastici. S enza le scuole di Parmenide o Platone, Pitagora o Eraclito (dove erano ammessi in modo rivoluzionario addirittura gli schiavi), non avremmo avuto nessun sapere filosofico. E a leggere la storia della filosofia antica in modo non filtrato queste scuole erano tali per tutta una serie di precetti, dall’alimentare all’estetico, legati proprio a ciò che Tetsugen Serra chiama «la pratica». Pensiamo al più classico degli esempi, la differenza tra sistema esoterico ed essoterico nella filosofia di Platone: a noi resta solo ciò che aveva una funzione estrinseca e non importante, il “fuori scuola”, ma come sappiamo secondo il più grande dei filosofi di sempre la filosofia importante era tale solo nella pratica quotidiana della Accademia. Per questo credo che, al di là dell’importanza marginale di un dialogo come il nostro, ciò che concettualmente questa conversazione rappresenta sia centrale entro una più matura e meno campanilistica idea di cosa significhi pensare. «Ma anche il non pensare!», riprende Tetsugen Serra.
Il sapere ha bisogno di pratica e lavoro comune
«Nello zen si dice: ciò che gli altri buttano via lo zen lo utilizza. Credo anch’io che sia impossibile capire la filosofia occidentale senza passare dall’idea della scuola, solo che oggi osservo la filosofia accademica con una certa perplessità. Potete davvero trasmettere il sapere svincolandolo da ogni pratica? Siamo sicuri, lo dico con laicismo, che si possa trasmettere il sapere svincolandolo da una sua trasformazione materiale? Nei nostri ritiri con monaci e praticanti, oltre e studiare i koan e a meditare, una componente essenziale è il lavoro comune, la ritualizzazione dei pranzi o delle cene, la vita comunitaria. Questo non significa in fondo pensare? Credo che la scomparsa dei riti sia stata venduta troppo maldestramente come una maturità sociale non religiosa: lo zen è buddismo, certo, ma senza un fine specifico di vita o reincarnazione nell’aldilà, anzi è l’idea che la meraviglia sia ovunque e nell’aldiquà. Troviamo lo zen in un fiore come in una macchina da corsa».
Viene in mente, a sentire Tetsugen Serra, quel grande classico della letteratura americana con cui tutte le persone della mia generazione (i nati a fine anni Ottanta) hanno scoperto lo zen, Lo zene l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig pubblicato in Italia da Adelphi e ormai a suo modo storico. Com’è quella famosa frase? «Il Buddha, il divino, alberga nei petali di un fiore come negli ingranaggi di una moto». Eppure è difficile, nonostante le divulgazioni di pensatori come Alan Wilson Watts o Eugen Herrigel, considerare questo ponte tra filosofia e zen un ponte solido e concettualmente accettato. Per la maggior parte dei filosofi - anche se ci sono eccezioni straordinarie come il celebre logico dell’Università di Melbourne Graham Priest, che fa questo passaggio attraverso la sua pratica del karate - lo zen non è una filosofia, ma una qualche forma religiosa dogmatica. Allo stesso modo, credo anche per molti dei suoi monaci, l’idea dello zen come qualcosa che non va studiato ma solo praticato allontana dall’idea di una robusta riflessione teorica.
Oltre Socrate
«Vero», mi risponde Tetsugen Serra, «ma questa è anche la ragione per cui, per esempio, un maestro zen scrive così tanto. Io stesso ho pubblicato più di venti libri e non sono certo l’unico. Affinché questo ponte tra zen e filosofia si faccia sempre più concreto serve non soltanto conoscere classici letterari come quelli che hai citato, ma organizzare incontri di studio e lavoro. La posta in gioco è alta, per esempio in questo mio ultimo libro sull’idea di incertezza provo a capire cosa possa significare avere come modello logico e spirituale insieme qualcosa che non punti a chiarire il dubbio ma ad accettarlo, a conviverci». Credo si tratti della necessità di passare dal motto socratico e abusato del «so di non sapere» a una più complessa consapevolezza del fatto che neanche sappiamo ciò che non sappiamo di sapere. Credo sia questo il nodo che insieme stiamo cercando.
«CHE COSA POTREBBE SIGNIFICARE RICONCEPIRE LE SCUOLE DI FILOSOFIA AFFINCHÉ SIANO PIÙ SOMIGLIANTI AI MONASTERI CHE ALLE UNIVERSITÀ?»
Lo zen, mi sembra, ha una risposta immediata: inizia a comprendere cosa sai di te stesso, e ancora una volta torna in mente Socrate e dunque tutt’altro che una frattura. Credo che la filosofia occidentale abbia avuto un problema essenziale, delegando la dimensione della cura alla psicanalisi e quella della riflessione sulle cose ultime alla religione. Di fatto, purtroppo, svuotandosi di senso e vendendosi come mera procedura argomentativa su questioni di giuntura meta-concettuale. Questo nello zen, come in molte filosofie orientali, non è capitato. Così dovremmo guardare con interesse a modelli come quello di cui Tetsugen Serra è esperto.
Riportare le scuole di filosofia nei boschi
«Certo», chiude il maestro, «lo zazen, la nostra meditazione faccia al muro e occhi socchiusi, è una forma di cura e di sicuro il koan, nel vuoto incerto che lascia, è proprio una riflessione sulle cose ultime a partire dalla difficoltà di comprensione delle cose ordinarie. Sono anche abate e fondatore di un monastero molto meno metropolitano di questo milanese, il monastero zen SanboJi Tempio dei Tre gioielli a Berceto, sull’appenino parmense. In questa sede tutto è avvolto, la dimensione della cura di sé e quella della riflessione, la dimensione meditativa e quella dello studio, l’idea di micro-comunità e il lavoro per gli altri, dalla gestione della cucina alla pulizia dei bagni. Tutto è zen». In fondo è questa la rivoluzione. Cosa potrebbe significare riconcepire scuole di filosofia più somiglianti ai vostri monasteri che alle nostre università o accademie? Scuole di filosofia in cui si torna, proprio come fate voi, a essere peripatetici nei boschi? Forse dopo la morte di Dio denunciata da Nietzsche la risposta più rivoluzionaria non era la costruzione di nuovi idoli ma la consapevolezza che ogni cosa è idolo, proprio come dite voi sullo zen. Tutto è zen, tutto è idolo. Una pietra non vale meno di un libro di filosofia morale. «Credo sia un inizio, e pensare al futuro dello zen come più filosofico o della filosofia come più zen comincia proprio da qui».
Gianluca Zotti
Martedì 19 Novembre 2024